Agire nelle trasformazioni urbane. Tra coerenza e contraddizioni a Porta Palazzo, Torino
di Karl Krähmer
Mi sarebbe piaciuto che questo articolo apparisse su Napolimonitor ma purtroppo la rivista non ha voluto pubblicarlo.
Cosa succede nel quartiere di Porta Palazzo a Torino? Ne ha scritto su questa rivista in diverse occasioni Francesco Migliaccio. Ha descritto in molti articoli di come la città ha deciso e attuato lo sgombero della parte più povera del Balon, il cosidetto Suq, dalla sua tradizionale casa nelle vie di Borgo Dora a un’area recintata dietro al Cimitero Monumentale. E ha raccontato in varie occasioni la resistenza a questo spostamento. Ha poi scritto di come noi, “I buoni di Porta Palazzo”, che hanno costruito la Fondazione di Comunità Porta Palazzo (www.fondazioneportapalazzo.org) saremmo parte di questo stesso processo di espulsione dei poveri, di gentrificazione. Io sono il vicepresidente di questa Fondazione di Comunità che Francesco Migliaccio critica, per esempio anche in questo recente articolo sullo spazio pubblico tra Ponte Carpanini, Lungo Dora e Giardino Pellegrino. Vorrei in queste righe cercare di complementare la storia che racconta Francesco con alcuni elementi che tralascia. Questa è inannzittutto una risposta personale e farò alcuni riferimenti personali, ma proporrò anche alcune riflessioni di livello generale su che cosa significa agire in un contesto di trasformazione urbana, di gentrifcazione.
Conosco da vicino molto di quello che Francesco racconta. Lui l’ho conosciuto proprio nel tentativo di dare un supporto alla resistenza allo spostamento del Balon da Borgo Dora. Era, inizialmente, uno degli animatori dello sparuto gruppo di cittadin* che si chiama Comitato Oltredora (un bel nome che proprio lui suggerì) e che più tardi diventò uno dei fondatori della Fondazione di Comunità. Però andiamo con ordine: il comitato si formò perché a livello pubblico l’argomentazione centrale della Città per spostare il mercato si basava sul fatto che c’erano gruppi di cittadini a cui quel mercato (o meglio, quella parte di mercato) molestava, perché causa di “degrado”; nello specifico i comitati riuniti di Porta Palazzo, alleati, tra gli altri, con l’Associazione dei Commercianti che invece gestisce l’altra parte del Balon, quella apparentemente più nobile, dignitosa e presentabile ai turisti che bisognava attrarre nella logica in particolare dell’allora assessore al commercio della Città. Per questo, nacque l’idea che noi – che come loro eravamo residenti del quartiere – potessimo dare una narrazione diversa del mercato da opporre a quella di quei residenti che il mercato non lo volevano: quella di abitanti del territorio per cui questo mercato era parte dell’anima del quartiere. Francesco era critico al vederlo in questo modo: più importante per lui la concretezza del bisogno delle persone che al mercato vendevano e compravano (e ancora lo fanno, con più difficoltà e segregati, in via Carcano). Anche per noi era fondamentale questo lato della vicenda e lo dicemmo in molte occasioni, però pensavamo che fosse importante adottare anche altre strategie di comunicazione. Forse a partire da questa differenza di opinioni Francesco cominciò ad allontanarsi dal comitato. Comunque in molte occasioni continuammo a essere presenti insieme nei lunghi sabati, così come nei freddi presidi notturni quando il mercato ormai operava in maniera illegale (ma legittima e bellissima, pieno di vita) e in alcuni momenti di sgombero violento dei venditori da parte della polizia a cui cercammo di aiutare i venditori a opporre resistenza pacifica.
Eravamo invece in disaccordo sempre quando si trattava della domanda se si poteva e doveva o meno cercare un dialogo con il Comune, con l’associazione Vivibalon che quel mercato lo gestisce e con altri attori del territorio. Noi credevamo che questo dialogo fosse indispensabile per poter anche solo pensare di raggiungere qualcosa, per Francesco era (mi permetta che lo sintetizzo così) tradimento della causa.
Alla fine, questa battaglia l’abbiamo persa, non c’è dubbio. L’hanno persa gli straccivendoli in primis, ma anche Francesco Migliaccio e altri vicini a lui, e noi del comitato Oltredora. Credo che su questo siamo d’accordo. Sicuramente non siamo d’accordo sulle conclusioni da trarre da questi eventi. Ho sempre ammirato la capacità e la pazienza di Francesco nello stare di prima persona vicino agli “ultimi”, alle persone fragili, escluse dalle trasformazione urbana. E anche la sua capacità di analisi e di racconto critico che ha fatto in questi anni del processo di trasformazione nel quartiere. Mi ha però turbato la sua opposizione radicale a ogni tentativo di costruire qualcosa di diverso e strutturato in risposta a questa trasformazione per quanto sia una posizione legittima. Più difficoltà ho nell’accettare come in alcuni suoi articoli sulla Fondazione di Comunità mette tutto quello che di problematico c’è nel quartiere sullo stesso piano e come non provi a differenziare tra chi fa che cosa, ma piuttosto livella soggetti e responsabilità. Contesto in cui Fondazione di Comunità diventa sostanzialmente identica a gentrificazione colorata di buonismo.
Voglio raccontare qualcosa in più della storia della fondazione per spiegarmi meglio. Già nel percorso della resistenza allo spostamento del Balon, nel comitato Oltredora, che man mano ha preso contatti per esempio con l’Associazione Fuori di Palazzo, Casarcobaleno e il Cohousing Numero Zero (https://www.fondazioneportapalazzo.org/chi-siamo/), ci rendevamo conto dell’enorme difficoltà nel farci sentire dalla Città e di passare per esempio il messaggio di aver raccolto nel Borgo migliaia di firme contro lo spostamento del mercato. Anche noi interpretavamo lo spostamento del mercato come parte di una più ampia strategia di trasformazione del quartiere, verso un processo di gentrificazione, che non condividiamo. Parliamo anche in varie occasioni della contraddizione di essere noi stessi (come lo stesso Francesco Migliaccio) per certi versi parte di questo processo, essendo, almeno nella media, di un’estrazione sociale diversa della media degli abitanti di Porta Palazzo e Aurora, con redditi tendenzialmente più alti e arrivati ad abitarci, in molti casi, negli ultimi anni. Ora, non credevamo, e tutt’ora non crediamo che questa contraddizione debba portarci ad autoflagellarci. A che cosa servirebbe? Ma piuttosto a prenderla come sprono per attivarsi. La nostra risposta al non riuscire a farci sentire fu quella di decidere di costruire una struttura, un percorso, un soggetto dal basso, che avesse in futuro la possibilità, la capacità, il potere, di mettere una parola sulla trasformazioni del quartiere. Non semplicemente sulla base delle nostre personali preferenze, ma anche e soprattutto attraverso un’ampia collaborazione con e partecipazione di persone singole e altri soggetti organizzati nel quartiere. Perché avevamo perso una battaglia importante ma volevamo non perdere anche quelle sarebbero seguite, guardando impotentemente.
Ovviamente si può criticare questo pensiero, come arrogante, come ingenuo, come punto di partenza per allearsi “col nemico” e tradire la lotta. La nostra idea però è quella di accettare questi rischi, di non schivare le contraddizioni alla larga ma di provare piuttosto a cercare di fare qualcosa nella realtà concreta, anche a costo di sbagliare alle volte. Con l’idea che si possa migliorare la qualità della vita nel quartiere, senza innescare (o rafforzare) i processi di gentrificazione. Non pensando che noi possiamo fare tutto ciò da soli ma che possiamo contribuirvi un pezzo. Così abbiamo allora deciso di costruire questa struttura che è diventata la Fondazione di Comunità. Forse non necessariamente doveva essere questa la forma. Sicuramente ci è stata ispirata dal fatto che sta andando di moda e che c’era un bando di Compagnia di San Paolo. Alla fine però penso che sia una forma piuttosto utile per affrontare la sfida che ci siamo dati, soprattutto nella forma aperta e partecipativa che abbiamo dato alla fondazione attraverso i quasi due anni di lavoro collettivo allo statuto.
Che cosa fa la Fondazione? L’idea è che sia capace di raccogliere risorse (economiche e non) e metterle a disposizione del quartiere, sia direttamente che sostenendo progettualità altrui. Da quando si è costituita, abbiamo lavorato in particolare lungo tre assi: spazio pubblico, casa e il sostegno alle reti sociali del quartiere. Quest’ultimo asse di lavoro si è concretizzato finora soprattutto in un supporto sia di denaro che logistico-organizzativo al Coordinamento Aurora che si fondò in piena pandemia tra un ventaglio ampio di soggetti a sostenere le persone fragili in quei tempi difficili.
Ma voglio parlare soprattutto di casa e spazio pubblico perché credo che tra le attività su questi due assi si giochi molto della nostra risposta alla sfida sulla gentrificazione che ci siamo dati. Nello spazio pubblico si può sintetizzare la nostra azione con l’idea di voler lavorare per uno spazio pubblico nel quartiere più bello ma inclusivo che non espelli né nasconda le difficoltà socioeconomiche delle persone che sono presenti nelle strade e piazze del quartiere. Per essere concreti: quando è uscito il bando ToNite di cui scrive molto Francesco, ci siamo molto preoccupati di una lettura dello spazio pubblico in cui, per esempio, le persone che frequentano il ponte Carpanini non erano descritte come persone ma esclusivamente come problema alla (percezione di) sicurezza. Lo stesso abbiamo deciso di partecipare al bando. Perché? Perché ci sembrava la maniera più efficace per cercare di mettere parola sulla trasformazione di quegli spazi pubblici, cercando di renderla più inclusiva. Non perché riteniamo sbagliata o inutile la protesta o l’opposizione rispetto a certe logiche di trasformazione ma perché ci sembra molto difficile vincere qualcosa su questa strada, in un contesto in cui l’opinione pubblica e mediatica rispetto a questi temi è decisamente calda ed agitata e difficilmente favorevole alla difesa delle persone marginali che abitano gli spazi pubblici. E crediamo anche che negare disagi che per molte persone sono reali siano una via promettente. Ci sono persone per le quali alcune presenze e attività – siano esse legate anche a un uso completamente legittimo dello spazio pubblico – creano disagio. Donne, per esempio, che si sentono intimidite da una presenza (quasi) solo maschile sul ponte. La nostra idea è che bisogna rendere visibili le diverse prospettive ed esperienze per poter aprire un dialogo. Abbiamo iniziato, in questa prospettiva, con il progetto di una radio che cerca dare una voce ai “ragazzi del ponte”.
Anche per noi, mettere delle fioriere per impedire che vi dormi una persona è stata una mossa inaccettabile. Così come non ci è piaciuto togliere le panchine da vari tratti del Lungo Dora. Mossa che non mi pare abbia ridotto il disagio per gli uni, che senz’altro però lo ha aumentato per gli altri. Accostare a questo però la nostra azione sul Giardino Pellegrino (quello dove c’era la montgolfiera per capirci), mi pare assurdo. Questo giardino è stato per anni privatizzato attraverso la concessione al gestore della montgolfiera e poi è rimasto per anni chiuso perché inagibile. Quando abbiamo iniziato a metterci in dialogo con l’amministrazione comunale (durante la giunta Appendino), non c’era alcun piano di riaprire il giardino perché il Comune era coinvolto in una vicenda giudiziaria con il gestore della montgolfiera che aveva violato il suo obbligo di rimetterlo in sicurezza. Abbiamo allora deciso di avviare una raccolta fondi per metterlo in sicurezza noi. Raccolta che si è conclusa con successo e da questa primavera, dopo la firma di un patto di collaborazione con la Città, il giardino è di nuovo aperto a tutte e tutti e pieno di attività. Qualcuno critica che si chiude di notte e dice che il giardino non dovrebbe essere “condiviso” come abbiamo scritto fuori dal cancello ma “pubblico”. La chiusura notturna è sicuramente un tema da discutere e non necessariamente è la situazione definitiva. È un equilibrio momentaneo, raggiunto anche in relazione ad altri vicini che erano inizialmente del tutto contrari all’apertura del giardino che ora invece ne sono contenti. È in corso un percorso partecipativo (con incontri ogni mercoledì) sul futuro del giardino, in cui, tra le altre cose, si potrà discutere anche di questo tema e a cui chi legge è invitat*. Che il giardino invece non sia abbastanza pubblico pare davvero un’argomentazione bizzarra rispetto a un luogo che ora è molto frequentato da persone di tutti i tipi (per esempio anche da chi in precedenza cenava sulle panchine fuori, tolte non certo per la nostra volontà) e che prima era chiuso per anni.
Siamo consapevoli che migliorare lo spazio pubblico comporta sempre il rischio di rendere più attraente un quartiere e di contribuire così indirettamente all’aumento dei valori immobiliari e dunque alla gentrificazione. Ci sono poche ricette per contrastare questo processo, anche nella letteratura scientifica sul tema. Penso però che la risposta non possa essere demonizzare ogni intervento sullo spazio pubblico, perché implicherebbe dire che chi vive in un quartiere povero non ha diritto a un quartiere bello e vivibile. La risposta per noi fondamentale in questo contesto è di lavorare anche sulla casa: cioè contribuire a mantenere / rendere economicamente accessibile una casa dignitosa nel quartiere per tutte e tutti. Ovviamente non pensiamo che noi da soli possiamo garantire questo, però cerchiamo di dare il nostro contributo, sia attraverso il dialogo con la Città, sia attraverso un intervento diretto. I tempi di quest’asse di lavoro sono inevitabilmente più lunghi. Già in corso è uno sportello, aperto insieme al Cecchi Point, che è di supporto a chi è in emergenza abitativa, cercando di evitare di arrivare allo sgombero. Ma non è tutto, pensiamo che idealmente in un quartiere a rischio gentrificazione si dovrebbe togliere del patrimonio immobiliare residenziale dal mercato. Abbiamo da tempo avviato un percorso di riflessione, confrontandoci per esempio in un ciclo di eventi aperti al pubblico organizzati insieme a Comu.net – Officine Corsare, con diverse esperienze europee ed italiane che hanno intrapreso percorsi simili.
Agire nelle trasformazioni urbane, dal basso e cercando di lavorare per renderle più inclusive non è semplice. Si può mettere prima di tutto la coerenza – ma il rischio è sempre quello di stare ai margini dei processi. Oppure si può cercare di immischiarsi maggiormente – ovviamente con il rischio di sbagliare e di incorrere in contraddizioni e di essere visti come collaboratori del processo stesso. In questo contesto, nella trasformazione di Porta Palazzo e Aurora, con la Fondazione di Comunità abbiamo deciso di percorrere la seconda via, perché per noi era più importante arrivare a dei risultati concreti che farlo senza errori. E di riuscire a cambiare davvero qualcosa, siano essi anche risultati piccoli. È sempre importante ricevere delle critiche esterne e tenere vivo un dibattito interno. In questo senso ringrazio Francesco Migliaccio e i suoi testi. Ancor meglio però sarebbe se queste critiche fossero un più costruttive e soprattutto più specifiche, non confondendo le differenze tra diversi attori e diverse azioni ma invece cercando di evidenziarle ed analizzarle con precisione. Perché proprio come scrive Migliaccio, “[l]o studio dei dettagli è l’occasione di sviluppare un’idea di città.” E aggiungerei di un’idea di come si può cambiare la città.